Ci sono WhatsApp che non sanno di arrivare, forse
neanche di partire, sono frecce a casaccio di una nube social indefinita,
richieste d’aiuto sommesse, atti di fede lanciati nel vuoto, respiri cauti a
non disturbare ma allo stesso tempo a distinguersi nel controtempo di un timido
vociare che ad un solo accenno già evapora.
Ne esistono di mai inviati invece, e che non arriveranno,
forse solo intuiti, costruiti, assemblati, parcheggiati, in rampa di lancio anche,
ma dai motori decisamente sopiti.
Fanno il paio con quelli vorresti ascoltare e invece
chissà in quale remoto cantiere giacciono, anzi, in quale limbo attendono che
qualcuno percepisca la fiammella per una loro intuizione, che non sopraggiungerà
mai invece.
Sicuramente ci sono quelli ricevuti e di cui avresti
fatto serenamente a meno, quelli che ti chiamano in causa, che vomitano scenari,
che richiamano ad un ordine di rubrica estinto, che pretendono discese in campo
o sollecitano miracoli mnemonici.
Infine i tuoi uozzap, meditati, lanciati con
chirurgico raziocinio, offerti in pasto come radice paziente ad un mittente che
immagini sorpreso e incantato da tale sfoggio di creatività, e che non verranno
forse neanche visualizzati ma solo fagocitati da una marea ulteriore di
messaggistica opulente e inutile.
Certo qua si blatera molto, ma devi almeno aveccelo, uozzap.